Di “riproduzione originale” e “creatività seriale”

(Divagazioni sull’arte contemporanea V)
Ed eccoci arrivati alla quinta puntata del nostro viaggio nel postpaganesimo dell’arte contemporanea.
La serie di articoli nasce per la rivista online Cultartes, e questo è uscito da poco e lo trovate, in inglese, qui.
“Io ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista del business.” – Andy Warhol
Nell’epoca dell’arte riproducibile e sostituibile a se stessa, ed il design industriale, nell’epoca della “riproduzione originale” e della “creatività seriale”, com’è possibile capire la differenza che corre tra un opera artistica ed un oggetto di design (o, peggio ancora, in una riproduzione di partenza)?
La pop art di Andy Warhol aveva, fra i suoi precetti principali, la riproducibilità. Tanto che, anche oggi, la fondazione che si occupa di “autenticare” le opere dell’artista, si trova in difficoltà: lo stesso Andy sosteneva che non importava certo se l’opera l’avesse effettivamente fatta lui o meno, tanto il principio era quello della riproducibilità, quindi che importanza poteva avere chi l’aveva fatta?
In un epoca in cui “tutti siamo artisti” e “tutto è artisticamente eleggibile” come fa a non essere arte un vaso per i fiori?
potreste cambiare atteggiamento e leggere un catalogo dell’ikea come si sfoglia un catalogo di una mostra: gli oggetti sono spesso accattivanti, ricchi di colori o con forme sinuose. Sovente non sembrano ciò che in realtà sono (design) e sono riproducibili allo sfinimento.
Che differenza corre, quindi, tra KÄRLEKEN (una cornice dubleface a forma di cuore, di plastica rossa) e un quadro del famoso barattolo di campbell’s?
Mi verrebbe da dire nessuna. Ambedue sono riproducibili ed il loro stesso concetto si sviluppa da questo assunto: la riproducibilità.
I materiali ormai sono i soliti, spesso gli artisti sono chiamati a pensare oggetti o textures per oggetti a favore di grandi marchi. Ma allora, dove sta la differenza?
E’ questa la vera grande domande, in un mondo artistico che ha perso il valore principale: l’unicità del gesto creativo. Certo, di “gesti creativi” ce ne sono molti, ma ognuno è singolo e singolare. La gioconda, il david, l’isola dei morti, l’urlo: sono tutti gesti creativi, ma ognuno è unico.
Un collezionista che comprasse L’Urlo di Munch sarebbe proprietario, prima ancora di una montagna di soldi, di un oggetto unico ed irripetibile. Non raro, ma unico. Potrebbero esistere certo delle copie, ma non sarebbero l’originale.
In questo la pop art ha distrutto gli schemi: ci sono opere d’arte che sono il concetto, poi vengono realizzate dall’artista stesso in centinaia di copie. Non sono quindi oggettivamente uniche.
Mi si potrebbe obiettare che neanche acqueforti ed incisioni sono uniche. E’ vero, ma al di la del fatto che vengono realizzate in numero limitato e poi dismesse, il gesto artistico unico sta nella realizzazione della matrice. E comunque, le copie hanno valore, ma non come opere uniche.
Ed è quindi importante stabilire quale sia il reale valore che deve avere un’opera. L’idea? L’unicità? O ambedue? o nessuna delle due?
La realizzazione in serie di un’idea artistica ha di aberrante l’assoluta similitudine con la realizzazione massiccia di oggetti di basso design per le grandi catene, come Ikea.
E’ quindi il design di basso profilo la nuova frontiera della Pop Art?
Certo, questo renderebbe ogni casa una galleria d’arte.
Sempre con le solite opere d’arte in tutto il mondo.
Globalizzazione artistica.
Intrigante e inquietante…